Nel libro la famiglia si chiama Mishra, si sistemano a Queens, New York, in un quartiere già abitato da molti immigrati indiani, il padre trova lavoro come contabile, la madre si occupa dei due figli Birju e Ajay e di mantenere vive le proprie tradizioni e un buon rapporto coi nuovi vicini. Abituarsi al nuovo stile di vita è faticoso per tutti, ma proprio quando le cose cominciano a girare per il verso giusto, ecco che una tremenda disgrazia si abbatte sulle loro esistenze. Come affrontare dunque il nuovo corso della loro vita? Quanti e quali sacrifici saranno costretti a sopportare?
Non troviamo una vera e propria trama nel romanzo, si tratta semplicemente della storia della vita di questa famiglia. L’autore ha impiegato quasi dodici anni per scrivere il romanzo. Per sua stessa ammissione, trovava difficile renderlo interessante, non voleva che fosse un racconto che parlasse solo della quotidianità, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina. Ciò che quindi aggiunge valore al testo è lo spostamento dell’attenzione da particolare a universale, dai Mishra a noi lettori, a significare che tutte le famiglie sono uguali, pur essendo tutte diverse. Molto interessante è anche a nostro avviso, la narrazione del lavoro di integrazione che i quattro protagonisti saranno chiamati a fare, e la descrizione delle tradizioni della comunità indiana e della loro particolare visione del mondo.
La prosa è vivace e scorrevole, si legge d’un fiato. Ci lascia un po’ perplesse il finale. L’autore dedica poche pagine per raccontare lunghi periodi e grandi cambiamenti, si ha la positiva impressione che finalmente la famiglia ce l’abbia fatta, che i protagonisti abbiano raggiunto pace e prosperità, ma l’ultimissima frase rimette tutto in discussione, lasciandoci sinceramente esterrefatte…
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